domenica 19 febbraio 2012

5. Unclued



Una snella figura si stagliava in controluce dinnanzi alla finestra del salotto di Baker Street. La fronte era leggermente corrugata, chiaro segno dell’intensa attività intellettuale della sua mente superiore. La barba era incolta, trascurata da almeno tre giorni. La pioggia picchiettava ritmicamente sull’ampia vetrata, ma questo rumore sembrava non infastidire minimamente il grande detective.

C’è un tempo di merda, pensò mentre secchiate di acqua nera e sporca venivano vomitate dal cielo su Londra.

Per un attimo, aveva temuto che l’inattività degli ultimi mesi avesse atrofizzato le sue cellule cerebrali, andando a intaccare i perfetti meccanismi della sua logica. Ma che sciocchezza, si disse rincuorato, ci vuole ben altro per mettere a tappeto il mio genio.
Dopo la vittoria a Chi vuol essere milionario?, Holmes aveva deciso di ritirarsi dalle scene, certo dell’invidia della concorrenza.

La voce squillante della padrona di casa, Jessica Fletcher, interruppe dal piano di sotto la sua riflessione.
«Signore! C’è il dottor Watson per lei!»
Ovvio, vecchia vacca. Nulla sfugge al geniale Sherlock Holmes, che già da tempo aveva previsto questa visita. Più o meno da quando, venti secondi prima, aveva visto un uomo con la stessa faccia del suo fidato assistente accostarsi al portone del 221b di Baker Street.

Occhi aperti, potrebbe essere un terribile automa.

Watson entrò in salotto, sfoggiando il suo miglior sorriso.
«Holmes! Da quanto t…»
«Shht!» fece l’altro, interrompendolo. «Deduco che lei sia appena tornato da una vacanza in una località di villeggiatura, probabilmente un centro termale… e il suo puzzo di zolfo mi fa supporre si tratti di Bath, in cui si è trattenuto per circa dieci giorni.»

Detto ciò, sprofondò con soddisfazione nella sua elegante poltrona.

«Holmes…» mormorò il dottore.
«Sì, lo so… dopo tanto tempo, riesco ancora a stupirla con le mie deduzioni.»
«Holmes, veramente ho solo fatto una puzzetta.»
«Certo, certo...» disse il detective senza staccare lo sguardo dall’assistente, «mi dimostri che è lei.»
Watson perse qualche secondo, prima di rispondere con un timido «ha fatto ancora uso di droghe pesanti?»
«Suvvia, le ho chiesto di peggio in passato. Se fosse davvero lei, lo saprebbe.»
Un rivolo di sudore imperlò la fronte dell’aitante dottore al solo ricordo delle punizioni ricevute in passato.

La conversazione era iniziata da trenta secondi, ma era già arrivata al punto di saturazione. Watson mise da parte il mesto vaffanculo che riservava solo alle occasioni importanti, limitandosi a spostare il fuoco del discorso.
«La trovo piuttosto bene. Ha ridotto le dosi di cocaina?»
«Al contrario, le ho modificate. Ho deciso di sostituire l’ecstasy con le caramelle gommose della Haribo. Adoro foderarmici le gengive, fino a bloccare completamente la salivazione. Ma prego, si accomodi pure…» concluse, indicando la poltrona che il dottore era solito occupare, prima di lasciare il nido di Baker Street per convolare a giuste nozze.

Un silenzio imbarazzato era sceso tra i due uomini. Holmes aveva afferrato il giornale e sembrava essere entrato in trance, la sua attenzione era evidentemente stata catturata da qualcosa.
«Trovato un nuovo caso?» disse Watson timidamente.
«No, sto tentando il livello “esperto” del sudoku» ribatté l’altro, senza staccare gli occhi dalla pagina.
«Holmes, non può continuare così… deve trovarsi un passatempo, qualcosa di meglio del riuscire a ingoiare un intero pacchetto di caramelle senza nemmeno masticarle e allenarsi col livello “esperto” del sudoku…»
«Non è colpa mia. Londra in questi giorni è monotona, e il giornale delle Witch esce solo una volta al mese. Ora mi lasci stare, credo che starò in bomba per massimo altri cinque minuti.»

Watson sospirò, rassegnato. L’esperienza gli aveva insegnato che se il geniale Sherlock Holmes si metteva in testa di tagliare i collegamenti, non c’era niente da fare se non attendere pazientemente che ritornasse tra i comuni mortali.

Il giovane dottore si guardò intorno, gustando nel frattempo il ritrovato abbraccio della sua comoda poltrona. Quanti ricordi legati a quelle mura. Tutti i casi risolti insieme, le colazioni a mezzogiorno e mezzo, le suonate di violino alle tre di notte, le esplosioni di acido per gli esperimenti di Holmes, i furti con scasso commissionati da Holmes, le nottate in questura per colpa di Holmes… che bei tempi. Un rumore sordo fermò il flusso dei suoi pensieri.

«Holmes, credo che un cane o qualcosa del genere stia grattando la porta.»
«Non dica idiozie, Watson» sogghignò il detective, «vada ad aprire. Dietro quella porta, troverà una giovane donna di circa vent’anni, snella ma robusta e dall’andatura piuttosto impacciata. Credo che abbia degli scarponi da boscaiolo ai piedi, numero 39».

Fece appena in tempo a concludere questa geniale analisi, che Watson aprì la porta del salotto. Dietro di essa, un curioso animaletto giallo dall’aria stordita, alto su per giù tre mele o poco più, che mosse qualche passo incerto, osservando i due gentiluomini.
«Ma è dolcissimo!» esclamò Watson, giungendo le mani come soleva fare nei momenti di maggiore entusiasmo.
«A me fa schifo, lo butti dalla finestra o ci faccia preparare il brodo.»
«Holmes! Ha qualcosa attaccato alla zampina!»
«Ok, allora prenda il qualcosa e lo butti dalla finestra. Merita una punizione per aver tratto in inganno i miei sensi finissimi ed avermi fatto toppare paurosamente una deduzione.»
A malincuore, il dottore slacciò la piccola pergamena legata alla zampa dell’animaletto e, carezzandolo dolcemente, lo catafiondò giù dalla finestra, sperando che una carrozza mettesse presto fine alle sue sofferenze.

«Dunque? Cosa dice il messaggio?» mormorò Holmes, con aria annoiata.
«Non so… si direbbe una lettera, scritta da una certa signorina Bella, evidentemente una giovane americana – a giudicare dal modo in cui scrive –, ad una sua amica di nome Gemma del Sud. Un messaggio piuttosto confidenziale, evidentemente questa Bella si trova in un collegio…”
«Dia qui» sospirò Sherlock, «detesto sentire le sue idiozie, Watson. Quello geniale, tra noi, sono io. Non se lo dimentichi. Lei è quello bello e cretino. Buono solo per ballare a Domenica in»
Watson avvampò. Ogni volta che il suo ex-coinquilino lo insultava, si sentiva in qualche modo gratificato. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, era davvero felice di essere tornato a Baker Street, anche solo per una breve visita.

«Mmmmh, molto interessante…» sussurrò il geniale Sherlock Holmes.
«Cosa ne deduce?» disse Watson, tentando di nascondere l’eccitazione dell’attesa.
«Che questo messaggio è scritto da una donna, una certa Bella. Credo si rivolgesse ad un’amica lontana, Gemma del Sud.»
Watson sbatté le ciglia con aria perplessa. «E… quindi?»
«E quindi, indubbiamente non è ciò che sembra. Dev’esserci una qualche crittografia dietro… vediamo… ah, certo. Chiaramente, il messaggio è una richiesta di aiuto. Guardi qui.»
In alto, sopra la calligrafia storta, vi era uno stemma quadripartito, con al centro una grande H e sotto un motto in latino.
«Draco dormiens nunquam titillandus» lesse ad alta voce Holmes. Il detective decise di ricorrere alla sua conoscenza del latino per tradurre prontamente la frase appena letta «Al drago piace essere titillato, interessante.»
«Ma veramente...».
«Non sentivo l’adrenalina scorrere nelle vene da quando vinsi il quiz di Gerry Scotti.» lo interruppe Holmes.
Watson si aggiustò un ciuffo sulla fronte, cercando di trovare le giuste parole per rettificare l’affermazione del detective. «Holmes» tossì, «se ricorda bene come sono andati i fatti, lei si è intrufolato all’interno degli studi di Cologno Monzese e ha rubato quei soldi... ecco perché sono mesi che è agli arresti domiciliari.»

«Cazzate, dobbiamo recarci alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.» disse Holmes mostrando l’intestazione del foglio.
«C’è un treno che parte per Hogwarts questo pomeriggio alle sei, ma, come le dicevo, lei non potrebbe usci...»
«Perfetto!» esclamò Sherlock, battendo le mani con soddisfazione «avrò anche il tempo per svolgere la mia conseuta attività delle cinque.»
«Prendere il tè?» chiese Watson.
«No, sfilacciare le mie caramelle della Haribo e tessermici un paio di mutande come quello di Belen» rispose con tono ovvio il detective. «Watson, ma che ci fa ancora qui? Muova il culo, vada a fare le valigie.»
Il dottore non nascose la propria sorpresa.
«Holmes, ma io… non posso! Ho il mio studio da mandare avanti…»
«Ancora cazzate. In anni e anni, non è mai stato un problema. Nessuno dei lettori si è mai seriamente chiesto di cosa campasse, dato che passava le sue intere giornate appresso ai miei casi invece di curare i malati come ogni medico che si rispetti.»
Watson non poté replicare. Quell’Holmes ne sapeva sempre una più del diavolo.
«Ma… mia moglie?»
«Watson, lei pensa che i suoi fan preferiscano Mary Morstan o Sherlock Holmes come compagno per il suo weekend? Ci pensi un attimo. O, se preferisce, si faccia un giro sui siti di fanfiction.»
Il medico sospirò. «Passo di qui alle cinque e un quarto, si faccia trovare pronto, vestito e sbarbato. Ho l’impressione che questo collegio di Hogwarts sia un posto da pariolini.»

venerdì 20 gennaio 2012

4. Unmarilyned




Eravamo sdraiati su un prato. Il sole stava tostando le mie palpebre chiuse, schiarendo i baffetti che mi sarei tolta con le pinzette una volta tornata a casa da Charlie. Edward carezzava i miei capelli, accennando una canzone che non avevo mai sentito.
«Voglio averti qui vicino... voglio stringerti un pochino... dove sei?».
Quella canzone parlava di noi.
L’abbraccio freddo del vampiro mi riscaldava come non avevano fatto cento di mia madre.
«Edward» sussurrai, mentre girandomi cercai un suo bacio. «Quando mi trasformerai in vampiro per fare del sano fiki-fiki?»
«Quando entrerai nuovamente nella vergine di Norimberga!» rispose una voce che non gli apparteneva.
Sgranai gli occhi terrorizzata. Il Dottor House mi stava tenendo a sé, in un abbraccio che non aveva più nulla della tenerezza di Edward.
«Tu non sei come noi» mi disse digrignando i denti come avevo visto fare solo a Jacob sotto forma di lupo.
Roteai gli occhi, cercando di divincolarmi, quando lo vidi. In lontananza. Come sospeso.
A qualche metro da noi, Harry Potter ci osservava con un’espressione impenetrabile. Ricambiai il suo sguardo, mentre il medico aveva iniziato a cospargermi le natiche – improvvisamente scoperte – di olio e arance.
Non volevo che mi vedesse così.

Poi, un urlo nel buio.

Ero da poche ore scivolata nel tiepido abbraccio del Sonno, quando mi ritrovai a fissare il soffitto della sala comune del mio dormitorio, perfettamente vigile. Mi misi velocemente a sedere davanti al fuoco, ignorando i muscoli che mi ricordavano che mi ero addormentata sul divano.
A passi lenti mi diressi verso le scale a chiocciola, cercando di lavare via il ricordo dell’incubo appena fatto con un massaggio alle tempie. Asciugai un rivolo di bava che mi era scivolato lungo il collo e buttai giù un sorso di blumele. Avevo appena iniziato a salire i gradini per andare a coricarmi a letto, quando lo sentii di nuovo: un altro urlo, stavolta più vicino.
Mi bloccai stringendo il ferro della balaustra, incapace di respirare.
Silenzio.
Senza pensarci troppo, mi fiondai verso la parete scorrevole del mio dormitorio, quella comunicante con i bagni i maschili. Attaccai l’orecchio contro la pietra cercando di captare qualche altro suono.
Colsi una voce ovattata: sembrava appartenere ad un uomo che stava discutendo animatamente con qualcuno. Rimasi con l’orecchio teso, cercando di captare qualche parola, ma la parete spessa aveva insonorizzato quasi completamente l’altra stanza.
Poi, le due voci si allontanarono.
«Ok» feci a me stessa, incamerando più aria possibile; quindi, lasciai che la parete scorresse, dandomi accesso al bagno.
Silenziosa come un gatto scivolai dentro il box e sbirciai dalla porta socchiusa.
Chiunque stesse parlando, si stava dirigendo lontano dal bagno. Riuscivo a sentirne chiaramente i passi.
Il pericolo mi aveva sempre attratta. Ricordai quando, pur di vedere il volto del mio amato, mi ero buttata da una scogliera, rischiando di morire sfracellata sulle rocce.
Spinta dalla stessa carica di adrenalina, abbandonai il bagno dei maschi e seguii l’eco dei loro passi.

A piedi nudi calpestai una pozza di piscio, il cui olezzo mi impregnò le narici, accompagnandomi fino al gelido labirinto dei sotterranei del castello. Dove diamine stavano andando? Di cosa stavano discutendo?
Faticavo a stargli dietro, le gambe mi facevano ancora male. Feci uno sforzo ulteriore e sentii l’adrenalina tornare a scorrere nelle vene, quando le loro voci riacquistarono volume: mi stavo avvicinando.
Le fiaccole del corridoio proibito erano state spente da Gargamella, il custode della scuola.
Dannazione, pensai, continuando a farmi strada a tentoni.
Ormai ero vicinissima, di lì a breve sarei riuscita a vedere i bagliori delle loro bacchette.
Clang!!
Rimasi paralizzata, lasciando che il rumore dell’armatura che avevo appena spinto inavvertitamente, finisse di echeggiare nel buio. Il vociare dei due si interruppe insieme al rumore dei loro passi.
«Chi è?» fece una voce maschile che avevo già sentito.
Il rappresentante di Grifondoro, il professor Oscar Wilde spuntò dietro l’angolo che non ero riuscita a vedere. Il professore alzò la bacchetta nella mia direzione, per farsi luce.
Istintivamente mi appiattii contro il muro, il tempo di incrociare il suo sguardo e sentire il mio cuore perdere un colpo.
Mi aveva visto, ne ero sicura.
«Oscar, che succede?»
Una ragazza che non avevo mai visto comparve al suo fianco. Aveva i capelli biondi e vestiva gli abiti di una metallara sexy.
«Strano... ero convinto che qualcuno ci stesse seguendo dai bagni.»
Trattenni il respiro. Perché mi sta coprendo?
Il professore cinse la spalla della ragazza e sparì nuovamente dietro l’angolo.
Cercando di non fare ulteriore rumore, mi avviai velocemente verso il mio dormitorio.
Aspetta, Bella.
Qualcosa dentro di me mi fece fermare nel buio. Potevo ancora sentire i passi dei due. Se avessi voluto, sarei riuscita a raggiungerli e capire di cosa stessero discutendo.
Bella, non fare cazzate, ti è andata bene una volta...
Il professore aveva chiaramente finto di non vedermi. Voleva proteggermi?
O voleva che lo seguissi?
Le gambe si mossero prima del mio pensiero, accorciando le distanze che mi separavano dal professore e dalla sua misteriosa accompagnatrice.

«Ne ho fatti fuori due stanotte. Si erano spinti fino al campo di quidditch di loro spontanea iniziativa» spiegò la ragazza al professore.
«Non è da loro comportarsi in questo modo. Finora non avevano mai violato le regole della scuola...» commentò Oscar Wilde, mentre una lunga ombra nera appesantiva il suo cruccio, in un gioco di luci caravaggesco.
«C’è sempre una prima volta» tagliò corto lei. «Li conosco bene.»
Il cuore aveva iniziato a martellarmi così violentemente in petto, da farmi temere che lo potessero sentire.
«Controlliamo i dormitori» propose il professore. «Non dobbiamo correre rischi.»

Mi voltai e iniziai a correre senza respirare. I miei occhi si erano abituati alla luce delle loro bacchette, e riuscire a tornare al bagno maschile si rivelò impossibile.
Era la svolta a destra?
Avevo completamente perso l’orientamento. Perché stavo fuggendo? Oscar Wilde era riuscito a vedermi. Cosa sarebbe successo se fossi tornata nel mio dormitorio? Cosa dovevano controllare?
Non riuscivo a levarmi dalla testa le parole della bionda.
Ne ho fatti fuori due...
Forse tornare nel mio dormitorio non era la mossa giusta.
Ma allora cosa posso...

Non riuscii a terminare il mio ragionamento, che qualcosa di morbido mi fece inciampare e cadere a terra. Ancora una volta, le mie ginocchia fermarono la caduta. Un numero infinito di aghi di dolore mi si conficcò nelle gambe, mozzandomi il fiato.
A terra mi girai, cercando di capire cosa mi avesse ostacolata.
Qualcuno doveva aver perso un fagotto in mezzo al corridoio.
Dove diavolo sono?
La luna, che fino a quel momento era rimasta nascosta da una fitta coltre di nubi nere, mi venne in soccorso, illuminando il corridoio dei bagni femminili.
Sono dalla parte opposta al mio dormitorio.
Guardai in basso. Il fagotto era più grande di quello che avevo percepito. Da una parte, la luce lunare aveva fatto scintillare la paglia che ne usciva.
Mi avvicinai, strisciando, quando misi la mano su qualcosa di appiccicoso.
«Cosa...»
Afferrai il sacco e lo girai verso di me.
Non riuscii a trattenere il grido che mi uscì dal petto.

Quello che avevo davanti non era un sacco. Era il cadavere di Marilyn Monroe.
E la mia amica, completamente sfregiata, mi sorrideva.
Qualcuno le aveva cavato gli occhi.

venerdì 6 gennaio 2012

3. Unmounted




Ricordo che rimasi ferma in mezzo al campo, lasciando che il vento mi scompigliasse i capelli con le sue dita invisibili. Un lieve profumo di arance e girasoli mi riportò alla mente Edward e mi ricordò il sapore della sua pelle mortifera, infondendomi coraggio.
«Al mio via, datevi uno slancio e tirate su le gambe» fece il professor David Beckham, mentre si aggiustava la minchia nelle mutande. 
Presi un respiro profondo, stringendo il manico come se avessi paura che potesse sfuggirmi da un secondo all’altro e aspettai un altro cenno.
«Via!» urlò David Beckham portandosi le dita al naso, per annusarne la dolce essenza.
Harry schizzò subito in aria, Richie Rich lo seguì ridendo. Era arrivato il momento di volare. Chiusi gli occhi e mi diedi uno slancio, aiutandomi col collo, per seguire la scia dei miei compagni. Tirai su le gambe e mi schiantai al suolo, conficcando le rotule nel terreno.
Con le ginocchia immerse nel fango, rimasi a fissare gli altri mentre volavano da una parte all’altra del campo di quidditch.
«Che c’è, Swan, hai deciso di pregare?» mi chiese il professore avvicinandosi con sguardo commosso. «Apprezzo molto gli studenti religiosi. Rimani pure quanto vuoi.»
Non riuscii a rispondere.
Alzai lo sguardo e un pezzo di fango mi cadde in mezzo alla fronte. Una nostra compagna stava pulendo le scarpe di Harry.
«Scusami, ti prego!» mi gridò lui, qualche metro sopra di me.
«Tranquillo, è solo fanga! Adesso vi raggiungo» dissi, nella speranza di fare colpo.
«Non serve, Swan. A momenti avrà gli allenamenti con la squadra di Grifondoro» rispose per lui Richie Rich.
«Ci sentiamo, allora» disse Harry regalandomi il suo sorriso migliore e sfrecciò verso il castello.
«Vorrei essere tua amica!» gli urlai dietro. 
Ma era già sparito. 
E io mi ero rotta le gambe.
«Il medico della scuola usa dei metodi un po’ particolari» mi avvertì David Beckham, prima di mandarmi da sola in infermeria. «Ma non temere, domani sarai come nuova. Dio ti sarà vicino.»
Beckham mi fece un occhiolino, mi mise in tasca un rosario e tornò dagli altri allievi.
In silenzio mi trascinai sui gomiti come un marine. Nessuno dei miei compagni sembrò accorgersi della mia sofferenza che mi portava ad avere crisi di panico e convulsioni a intervalli irregolari e imprevedibili. Durante una, il cantante di pozioni, Renato Zero, mi scambiò per uno zerbino e si pulì i piedi sporchi di feci di drago sulla mia schiena. 
Solo dopo qualche ora giunsi in infermeria. Il Dottor House, un uomo sulla quarantina, con una leggera claudicanza, mi fece accomodare in infermeria e ordinò a Meredith Grey, la sua assistente – nonché doppiatrice di “Una mamma per amica” –, di portarmi dei cambi, poiché la mia uniforme si era completamente logorata sul ventre, graffiandomi la pancia e facendomi lasciare una scia di sangue denso, come le lumache.
Il tepore dell’infermeria mi rassicurava. Persino qui riuscivo a sentire il fruttato profumo dei Bon Bons di Malizia che Edward amava tanto.
«La Clerici sta ancora lavando i piatti con quel detersivo all’arancia. Cagarci dentro li farebbe puzzare di meno».
Sospirai e lasciai che la mia vista si annebbiasse per un secondo. Due lacrime scesero veloci lungo le mie guance. Edward non puzzava di merda. Lui era un dolce vampiro pieno di sentimenti d’amore...
«Ti farà un po’ male, ma dovrò bastonarti» mi spiegò il Dottor House dopo aver controllato le mie ginocchia.»
«Il professor David Beckham ha detto che lei è il migliore in questo settore.»
«Stai zitta.»
Mi inserì in una Vergine di Norimberga, ordinandomi di stare dritta. Anche se le rotule mi facevano male, mi fidavo di lui e delle sue capacità curative e gli permisi sfogarsi per tutto il pomeriggio, lasciando che mi percuotesse e che battesse il bastone contro il ferro di quello strumento di tortura. 
Dopo un po’ persi conoscenza. 
Quando rinvenni, ricordavo solo il suono di risate sadiche e il beep del cellulare col quale, credo, riprese tutta la scena.
«Ti fa male?» chiese Marilyn a cena, analizzando le fasciature che avevo sulle ginocchia.
«Non più.»
Avevo sofferto così tanto durante il pomeriggio, che quello che provavo adesso era acqua di rose in confronto. Quell’uomo era un vero visionario della medicina. Forse eravamo diventati amici adesso. 
In quello stesso istante lanciai istintivamente un’occhiata a Harry, assiso sul suo trono natalizio. Non capivo perché, ma quel ragazzo esercitava su di me uno strano ascendente. Eppure era vivo...
Certo, tutti e due avevamo una cicatrice. Abbassai lo sguardo sul mio polso e seguii l’impronta del morso che avevo ricevuto nel primo film della saga di “Twilight” da un vampiro cattivo.
«Perché vuoi essere così amica di Harry?» mi chiese Marilyn. 
«Io... non lo so» tagliai corto, troppo stanca per spiegare qualcosa che non era chiaro nemmeno a me.
«Non me la racconti giusta» borbottò, fissandomi pensierosa.
Il suo intuito riusciva a spaventarmi a volte. C’era poco da fare, non si diventa prefetti della propria casa e Paris Hilton’s BFF a caso. Quella ragazza dai riccioli d’oro aveva stoffa da vendere.
Marilyn si illuminò improvvisamente.
«Accicazzo, mi hai fatto venire in mente che ho una cosa che potrebbe tornarti utile!»
Senza darmi il tempo di chiederle cosa fosse, Marilyn schizzò via, venendo fagocitata dall’enorme portone della Sala Grande.
Mi voltai nuovamente verso Harry Potter, anche lui si era alzato in quello stesso momento.
«Va be’...» sussurrai a me stessa. Avevo già fatto tanto quel giorno, era inutile forzare i tempi e andare ad attaccare bottone.
La sala si svuotò, i professori ci augurarono la buona notte, ma Marilyn non era ancora tornata. Le palpebre erano pesanti e avevo bisogno di coricarmi.
Decisi che mi sarei scusata il giorno dopo e mi diressi verso il mio dormitorio.
Scesi le scale dell’ala ovest, e passai oltre le cucine, lasciando che un delizioso aroma di rognone mi augurasse la buonanotte. 
Veloce mi infilai nel bagno dei maschi e mi chiusi nel terzo box. In silenzio mi sedetti sul gabinetto e osservai uno strano buco sulla parete divisoria.
Mi ero chiesta varie volte a cosa servissero quegli strani pertugi, ma per quanto mi fossi sforzata non ero giunta a una conclusione soddisfacente.
Mi inginocchiai e immersi la testa nell’acqua del cesso, rimanendo in apnea per venti secondi, il tempo che si aprisse il passaggio segreto che conduceva nella sala comune della mia casa.
Adesso, dovevo solo asciugarmi i capelli davanti al fuoco del camino della sala comune e sarei potuta andare a sognare Edward. Non sapevo che, di lì a breve, la mia vita sarebbe cambiata radicalmente.

venerdì 30 dicembre 2011

2. Unblued




Cara Gemma del Sud,
rispetto all’ultima lettera che ti ho scritto, credo di poterti parlare di grandi novità. Recentemente, ho iniziato a frequentare una ragazza del terzo anno di Corvonero, una certa Marilyn Monroe. È una persona adorabile, che è riuscita ad andare oltre le apparenze, la mia fiata mattutina e le cipolle dei miei piedi, pur di conoscermi a fondo. Da allora, i tomi che mi lanciano i compagni non fanno più così male. I libri di Incantesimi hanno persino smesso di beccarmi di spigolo!
Sarà fortuna, oppure ho trovato un angelo custode?
Ho visto che ultimamente hai smesso di caricare video su YouTube. Tutto a posto?
Spero che non sia per la mia assenza.
Scrivimi presto,
i tuoi consigli sono sempre preziosi

            Bella

P.S. Salutami la tua gemella.


Con uno sputo, chiusi la lettera e la legai al collo di Pikachu, il mio animale famiglio. A scuola potevamo portare solo gufi, gatti, rospi o sorci. Ero fermamente convinta che Pikachu non appartenesse a nessuna delle categorie sopra elencate, ma una parte di me non voleva indagare oltre.
«Fa’ presto» gli dissi, senza credere alle mie parole. Pikachu, mi aveva spiegato il vucumprà della bancarella dove l’avevo vinto con i punti fragola dell’Esselunga, aveva un ritardo del lobo temporale. Sapevo che non avrebbe portato quella lettera prima di due mesi.
«Bau bau» mi rispose sbavando e si diresse contro la porta chiusa.
Veloce mi alzai dal letto e lo lasciai uscire dal passaggio segreto che impediva accesso agli estranei nella sala comune del mio dormitorio.
Mentre chiudevo la porta, mi sembrò di vedere una freccia incendiaria saettare contro il mio povero famiglio. Non volli aprire per controllare che non fosse stato colpito. Dovevano essere gli amici di Harry Potter.
Harry era un ragazzo pieno di turbe; nonostante ciò, non c’era un solo studente in tutta Hogwarts che ne parlasse male. Tutto per una stupida cicatrice a forma di saetta che gli conferiva l’aspetto di una cappella circoncisa da un macellaio.

«È solo molto timido. I suoi genitori sono morti di overdose» fece Marilyn a colazione, mentre addentava uno stinchetto natalizio di maiale della Clerici.
Harry non si era presentato a colazione. Il trono che il preside della scuola, insieme a tutto il corpo docente, aveva fatto installare davanti al suo posto era vuoto. Un elfo domestico l’aveva tirato a lucido e addobbato con aghi di pino e ghiaccio incantato. I braccioli dorati – alcuni affermavano che quell’oro provenisse dai bracciali del Papa – scintillavano sotto il pallido sole del mattino, che le nuvole avevano già iniziato a coprire.
«Vorrei essere sua amica» le dissi fissando la mia zuppa di ‘nduja e mentos. «Se non sbaglio, adesso ho due ore di  Quidditch insieme ai Grifondoro. Oggi sono ottimista, gli parlerò».
Sarebbe stata la mia prima lezione. Ero molto curiosa, Marilyn me l’aveva descritto come uno sport eccitante, quasi quanto il Blitzball che ero solita giocare insieme ai Cullen.
«Mi raccomando» mi aveva detto puntandomi un osso ancora non del tutto spolpato in faccia, «alla prima lezione ti verrà voglia di andare subito molto in alto. Non farlo!».
«Perché?», le chiesi, mentre venivo benedetta dal grasso del porco.
«Hai visto tra i Tassorosso?».
Veloce mi voltai verso il penultimo tavolo sulla sinistra.
«Hai visto quella ragazza con l’occhio più aperto dell’altro?», aggiunse strappando un altro morso alla sua colazione.
«Sì, chi è?».
«È Cesara Buonamici. Lei dice che sia stato il botox, ma lo sappiamo tutti che è per colpa dell’ultimo torneo di quidditch. Un atterraggio di faccia le ha giocato questo brutto scherzo».
Il quidditch. Possibile che un gioco potesse essere così pericoloso? Tutto quello che sapevo è che si svolgeva in aria, a cavallo di scope incantate che potevano volare. Si giocava con quattro palle. Una grossa palla, detta pluffa, che tre giocatori dovevano riuscire a far passare in mezzo agli anelli della porta avversaria per fare punto; un boccino d’oro, liberato all’inizio della partita, che volava velocissimo e piccolissimo e che due giocatori – uno per squadra – dovevano afferrare per ottenere centocinquanta punti e far finire la partita; e, infine, due bolidi, grossi e pesanti, venivano lanciati contro i giocatori della squadra avversaria, per disarcionarli dalle loro scope.

L’aria pungente del mattino inglese si era appesa alla mia faccia e non intendeva lasciarla stare. Un brivido mi percorse lungo la schiena, facendomi stringere attorno al collo la sciarpa con i colori della mia casata, rosa e marrone.
«Mi raccomando, ragazzi, non commettete imprudenze».
David Beckham, il nostro professore di volo, stava in piedi in mezzo al campo di quidditch con la sua abituale uniforme, un paio di succinti slip Emporio Armani e dei calzettoni di spugna tirati su fino al ginocchio perfettamente depilato. Grifondoro e Serpeverde avevano iniziato ad agitarsi, impazienti di mostrare l’un l’altro chi fosse il migliore.
«Mio padre mi ha comprato una Folletto 2.0» disse Richie Rich, un bambino che nella vita guadagnava soldi recitando la parte di Macaulay Culkin. «Se solo avessi potuto portarla a scuola...».
«Impossibile» lo interruppe Beckham. «È severamente vietato portare scope che non siano di proprietà della scuola, a meno che non si faccia parte della squadra ufficiale della propria casa».
Il professor Beckham ci condusse davanti a delle scope accatastate sull’erba.
«Quest’anno», aggiunse, «noi professori abbiamo tutti intenzione di iniziare il torneo di quidditch il prima possibile. Dalla prossima lezione, dovremo lasciare il campo libero ai titolari delle squadre per gli allenamenti».
Harry Potter prese la sua scopa. Lui era l’unico che aveva potuto portarla da casa. Gli altri ragazzi si fiondarono sul mucchio, cercando di afferrare quelle migliori.
Presi, come gli altri, la prima scopa che mi capitò sotto mano. Era leggera come una piuma.
Beckham ci fece mettere in fila e accennò un passo di danza.
A quel punto, montai sulla mia scopa.

venerdì 23 dicembre 2011

1. Unbalanced




Non aver paura amore, ti troverai benissimo...

Da quando, in una fredda mattina di settembre, ero arrivata in quel maniero così sconosciuto e ostile, le parole di Edward non avevano smesso di echeggiare nella mia mente nemmeno per un istante.

La Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.
Cosa ci facevo io, Bella Swan, in un paese che non mi apparteneva? Lontano da Charlie, dai miei amici, da Forks, ma soprattuto da Edward Cullen, il vampiro del mio tenero cuore di miele? 
Eppure, continuavo a ripetermi incessantemente di aver fatto la scelta giusta. Dentro di me, sebbene flebile, una piccola candela di speranza riscaldava il muro delle mie insicurezze. Solo così, solo accedendo a quelle conoscenze ancestrali, sarei riuscita a diventare anche io una magica Emi. 
La famiglia di Edward, all’inizio così gentile e disponibile, aveva improvvisamente manifestato una certa diffidenza nei miei riguardi, quando aveva scoperto che il mio unico talento era quello di riuscire ad appendere i quadri a colpi di fronte. Dovevo guardare in faccia la realtà: non ero come loro.
«Non è vero, loro ti adorano». Edward non smetteva di ripeterlo, ma io non gli avevo mai creduto. Veloci, come gocce su un impermeabile, le sue parole mi scivolavano addosso. Mi sentivo sbagliata, sapevo che non mi avrebbe mai accettata del tutto, se la sua famiglia di vampiri avesse persistito nel mettermi a disagio continuo. Facendomi sentire un’estranea.  Facendomi sentire inferiore. Facendomi sentire magica quanto una serranda.
«Forse ci sarebbe una soluzione» mi disse Edward, un giorno in cui ero particolarmente provata. Il sole era da poco uscito dal denso strato di foschia. I suoi lineamenti perfetti venivano carezzati dai primi raggi, che li facevano brillare, conferendogli una bellezza quasi illegale. Il vampiro si sedette accanto a me e rimase in silenzio ad ammirare il fulgore della natura, che risplendeva attorno a noi, in un misto di divertimento e contemplazione. 
«Amo il suono degli uccellini... fanno cip cip».
Edward riusciva a essere così profondo. Distolsi lo sguardo velocemente da quello spettacolo, del tutto incapace di mantenere il contatto visivo con lui troppo a lungo. Quel suo sorriso sghembo mi faceva impazzire.
La gigetta aveva iniziato a brontolare sommessamente.
«Cosa hai detto?» risposi in un sussurro.
«C’è una soluzione».
Una soluzione? Che bisogno c’era di una soluzione? Cos’è che andava risolto? Lo sapevo, per lui ero sempre stata un problema, qualcosa di cui vergognarsi. 
Un moto di rabbia mi risalì dallo stomaco fino al cuore, come negli Harmony. Avrei voluto fuggire, urlare e piangere. Ma le lacrime non sarebbero state d’aiuto. Avrebbero solo ribadito la mia triste mortalità. Feci per andarmene, ma le gambe rimasero ferme. Avevo sempre avuto dei seri problemi di deambulazione.
La verità, purtroppo, è che non avrei mai potuto ribellarmi al giogo del suo amore; mi aveva in pugno. Ero letteralmente, profondamente, inequivocabilmente e indissolubilmente innamorata di lui: di Edward Cullen, il vampiro glitterato peggio di Bratz Transgender.
Ecco perché decisi di frequentare una scuola che mi avrebbe reso alla sua altezza. 
Dissi a mio padre che sarei partita oltreoceano, per frequentare una scuola che mi avrebbe reso magica come Pippa. Charlie acconsentì alla mia partenza senza opporsi eccessivamente. Da anni, oramai, aveva iniziato ad assumere antidepressivi per alleviare lo stress derivato dalle mie frequentazioni: Edward Cullen, il vampiro ammazza conigli, Jacob Black, il lupo mannaro, Fonzie di “Happy Days” e la YouTuber Gemma del Sud.

L’impatto con la scuola fu pesantissimo, non ero abituata a stare al centro dell’attenzione durante le numerose lezioni a palazzo. Quando i professori mi chiedevano per quale motivo la mia bacchetta non emettesse nemmeno una flatulenza di scintille e polvere di fate, tutti mi guardavano in maniera strana; la verità era molto semplice: anche qui, non stavo venendo apprezzata minimamente. 
Perfino il più scarso della classe era riuscito a padroneggiare gli incantesimi di levitazione, ingrandimento mani e cura ferite leggere +3.
«Chi cazzo è questa?» furono le uniche parole che riuscirono a strappare al cappello parlante, durante la cerimonia di smistamento. Dopo aver parlato, era rimasto in silenzio sulla mia testa, gettandomi nello sconforto e facendomi desiderare di tornare a casa. Le guance non smettevano di bollire dalla vergogna. Mi sarei alzata, sarei uscita di corsa dalla porta, ma le gambe non volevano rispondere ai miei comandi. Dov’era Edward? Lui mi avrebbe portato in groppa per i corridoi alla velocità della luce, come era solito fare in mezzo al bosco – senza alcun motivo apparente.

Fu in quel momento che Yoda, il preside della scuola, parlò.  Decise di non farmi tornare e creò una casa apposta per me, il cui simbolo preferisco non descrivere. 
Una casa alla quale appartenevo solo io. 
Da allora, seguivo le lezioni insieme agli altri allievi. Rimbalzando da una parte all’altra, come una piuma in mezzo a una tormenta invernale.

Era da poco iniziato dicembre, Edward mi mancava da morire. Avevo iniziato a bere alcol etilico e smesso di lavarmi l’infrachiappa, quando accadde qualcosa di inaspettato a lezione.
«Dopo i risultati dell’esterna di Maria di ieri, credo che sia il caso che la signorina Swan torni a casa il prima possibile, per evitare di perdere ulteriore tempo» disse Renato Zero, il nostro cantante di Pozioni. 
Intorno a me, gli studenti di Grifondoro e Corvonero sbottarono a ridere, per compiacerlo. Arrossii visibilmente e mi nascosi dietro le onde castane dei miei capelli. Sapevo che il Cantante non si sarebbe dato per vinto e avrebbe continuato a umiliarmi pubblicamente.
Fu allora che, da pochi banchi alla mia destra, si levò una voce.
«La signorina Swan ha diritto come tutti noi di stare in questo posto. Il Professor Yoda ha parlato chiaramente».
«Signorina Monroe, a cosa dobbiamo questo intervento?».
Marilyn Monroe era una bellissima studentessa bionda di Corvonero, casata che riuniva all’interno tutti gli studenti più brillanti e intellettualmente dotati della scuola. 
Marilyn non sapeva solo cantare e ballare, ma grazie al suo indiscusso acume, con gli anni, era riuscita a diventare la cocca della rappresentante di Corvonero: Paris Hilton.
«In qualità di Prefetto, credo di trovarmi nella posizione per difendere la signorina Swan».
Il Professor Zero squadrò la ragazza in un silenzio che ci fece trattenere il fiato.
«Temo che Bella appartenga a una casata diversa dalla sua, signorina Monroe».
Fu Marilyn la prima a prendere una boccata d’aria, volgendosi verso di me. Ero al sicuro. Sapevo che avrebbe trovato le parole giuste, per controbattere.
Marilyn si passò una mano tra i boccoli dorati.
«Scusa, di che casa sei, Bella?» mi chiese sorridendo.
Aspettai un secondo prima di risponderle.
«Sono l’unico membro di “Chiccazzoèquesta”».
Detto ciò, me ne uscii dall’aula senza guardarmi indietro, lasciando la borsa e i libri sul banco.

A pranzo sedevo sola, con la faccia rivolta verso il muro, come mi ero velocemente abituata a fare. In silenzio fissavo il mio pasto, avvolta dalle risate spensierate dei miei compagni alle mie spalle. Le lacrime mi impedivano di mettere chiaramente a fuoco il club sandwich che gli elfi domestici, servi di Antonella Clerici, cuoca della scuola, avevano preparato per gli studenti.
Avrei voluto mostrare il mio talento al mondo, ma i quadri della scuola erano tutti attaccati con la magia. Niente chiodi da battere con violenza.

«Hai dimenticato questi» fece una voce dietro di me. 
Mi voltai. 
Marilyn mi stava sorridendo, porgendomi la borsa che avevo lasciato in aula. 
«Ti ho messo tutto in ordine. Li avevano presi per tentare di otturare i cessi dei sotterranei.  Non ti preoccupare, ho usato un incantesimo per ripulirli a fondo».
In silenzio aprii la borsa. Una zaffata di violette e merda mi investì, mozzandomi il fiato.
«Grazie» mormorai timidamente, sperando che le luci che avevo iniziato a vedere se ne andassero in fretta.
«Domani posso sedermi con te a lezione?» aggiunse aggiustandosi il vestito bianco che aveva iniziato a svolazzare, per colpa del tombino sotto i suoi piedi che si trascinava ovunque.
Stava parlando con me? Marilyn Monroe, la studentessa modello amata da tutti, stava veramente rivolgendo parola a me? 
Biascicai un sì e aspettai che Marilyn tornasse vicino alle sue amiche, prima di prendere in mano il libro della lezione successiva.
Bella non è bella, campeggiava, scritto a penna, sotto il titolo. 
Evidentemente qualcuno, approfittando della mia assenza, aveva deciso di farsi quattro risate.
Con gli occhi carichi di tristezza, lo aprii.

Dentro c’era un’altra scritta:

Bella troia.
Bene così.

Alla prossima settimana! :)